Collegamenti dell'Ortis con i Sepolcri
Ultime lettere di Jacopo Ortis è un romanzo epistolare
in cui sono raccolte le lettere che Jacopo avrebbe indirizzato all'amico Lorenzo Alderani,
il quale, dopo il suicidio del giovane, le avrebbe pubblicate per rendere omaggio
alla virtù dell'infelice amico. Protagonista del romanzo è l'immagine del Foscolo più
vero, degli anni tra il 1797 e il 1802, anni densi di amori tempestosi e di peregrinazioni
attraverso l'Italia contesa dagli stranieri. Doppia è la passione di Jacopo: a quella
politica si affianca quella amorosa, prima motivo vivificante, poi elemento che affretta
la catastrofe. Quando disperazione amorosa e delusione politica si saldano, Jacopo risolve
di morire: il suicidio, che è annunciato al principio e realizzato alla fine del romanzo,
è insieme rifiuto di una realtà divenuta insopportabile e unica soluzione, estrema
possibilità di proclamare i propri ideali.
(v. 5)
Cfr. l'Ortis:" Io salutava ogni passo la famiglia de'fiori e dell'erbe",
dall'ampia e commossa lettera del 20 novembre, in cui si intrecciano diversi motivi: la
scoperta dell'armonia del creato nella varietà dei suoi aspetti, in cui si placano le
disarmonie della vita; l'infelicità di Teresa e l'affinità spirituale dei due giovani e
insieme l'estraneità di Odoardo; la commozione di fronte alle tombe dei grandi.
(vv. 17-23)
Per quanto riguarda il concetto della natura naturante,
che tutto trasforma, cfr. la lettera del 13 maggio dell'Ortis: "La materia è tornata
alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde qua giù; tutto si trasforma e si
riproduce". Partendo dal sensismo e dal materialismo settecenteschi Foscolo approda ad una
concezione pessimistica e fatalistica della vita; essa è soltanto movimento della materia, di essa si può soltanto
descrivere la fenomenologia che lega, deterministicamente, le sensazioni alle idee più
complesse, ma essa non ha un fine, un perché, una causa. Il moto perenne della materia,
che tutto trasforma è dunque illuminato e giustificato da una luce razionale. E, naturalmente, in questo mondo senza
ragione e senza speranza si rivelano falsi tutti i grandi ideali degli uomini: la
libertà, la giustizia e così via.
(vv. 49-50)
Ricorda un brano dell'Ortis: "Geme la Natura perfin nella tomba, e il suo gemito
vince il silenzio e l'oscurità della morte", dalla lettera del 25 maggio. Essa
descrive la Natura e la morte. La prima è, a volte, vista nella sua ineffabile bellezza
tratteggiata come madre consolatrice; altre volte rappresentata nella furia dei suoi
elemennti, oscura nemica. Il motivo della seconda si esprime invece attraverso il mito
della tomba natia, confortata dal pianto degli amici, tema costante della poesia
foscoliana.
(v. 66)
L'ambientazione è quella dell'Ortis: la lettera del 4 dicembre infatti dice: "Ier
sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel subborgo orientale della città
sotto un boschetto di tigli". Jacopo Ortis andato pellegrino per le varie regioni
d'Italia, nella vana ricerca di un qualcosa per cui la vita meritasse veramente di essere
vissuta, a Firenze visita nella chiesa di Santa Croce le tombe dei grandi italiani, e a
Milano incontra il Parini con il quale discute delle
sorti della patria. La lunga lettera che descrive questo incontro è interessante per
diversi aspetti: anticipa un passo dei Sepolcri, tratteggia un ritratto sdegnoso
del Parini che avrà fortuna nel Risorgimento e chiarisce le posizioni politiche di
Foscolo subito dopo Campoformio.
(vv. 142-144)
Ricorda un passo già citato dall' Ortis: in questo
romanzo il Foscolo, anche se a piccoli tratti, descrive Odoardo come l' anti-Jacopo e l'
anti-Foscolo. Mentre Jacopo brucia se stesso in azioni impossibili, Odoardo "mangia,
beve, dorme, passeggia e tutto con l' oriuolo alla mano"; diventa cioè il simbolo di
una società che, tutta intenta al guadagno e al successo, non sentiva generosi ideali
come quello di patria , e considerava il matrimonio come una "sistemazione"; una
società che Ortis-Foscolo fortemente disprezzava e che Jacopo così descrive nel suo
girovagare per l'Italia "Dappertutto [...] volgo di nobili, volgo di lettori, volgo
di belle, e tutti sciocchi, bassi, maligni; tutti", dalla lettera Padova...; (scritta
tra l'11 dicembre e il 23 dicembre).
(vv. 182-183)
Nel suo vagabondare Jacopo perviene a Genova e poi a Ventimiglia, da dove descrive il
19/20 febbraio l'esperienza vissuta sulle sponde del fiume Roja. Qui contemplando lo
spettacolo maestoso delle Alpi si immerge in amare e desolate meditazioni, che dalla
tragedia d' Italia si allargano al destino dei popoli e degli uomini, tutti fino all'
eterne e incessanti vicende del cosmo. In questa lettera inoltre, il Foscolo conforme alla
visione giacobina della storia e al suo particolare sentire, non mostra simpatia per la
romanità signora del mondo. Si può poi vedere come ne I Sepolcri si esaltino,
appunto, più i vinti che i vincitori: Aiace e non Ulisse, Ettore piuttosto
che Achille.
Nei Sonetti vi è un'altissima intensità espressiva, tipica della sensibilità
preromantica. Vi è la formulazione di un desiderio di conoscere che cosa e come salvare
dalla distruzione del tempo. Nei "Sepolcri" il Foscolo usa la tecnica
poetica dello sviluppo per associazione delle immagini che si può riscontrare già nei
sonetti A Zacinto, Alla sera, In morte del fratello Giovanni.
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fèa quell'isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l' ìnclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio,
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro avrai che il canto del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
Riemerge in "A Zacinto" il tema della tomba e degli
affetti familiari dispersi che si riannodano sul sepolcro. Dalle tombe affiora il tema dei
ricordi: il monumento sepolcrale, che è ormai inutile ai morti, assume un senso di
giovamento per i vivi in quanto desta affetti virtuosi lasciati in eredità dalle persone
dabbene. Solo i malvagi che si sentono immeritevoli di memoria, non la curano. Senza
tomba, senza cioè un sepolcro individuale su cui possa piegarsi l'amore dei posteri,
giace Parini, definito il sacerdote di Talia, la musa della poesia satirica. Parini fu seppellito
nel cimitero di Porta Comasina e la sua tomba andò perduta perché, secondo l'Avviso del
1787, l'epitaffio fu appoggiato al muro di cinta e non sul sepolcro del poeta. In questi
versi il Foscolo lamenta che la tomba del Parini non potrà svolgere la funzione di
ispirare altri ingegni.
Con una transizione per contrasto, come in "A Zacinto", il poeta
introduce la sua pensosa figura. In questo sonetto, le dolenti riflessioni foscoliane
ritornano in un'atmosfera tutta intessuta di echi della poesia classica e assumono un
significato universale, che si esprime con un' intensità e una profondità di accenti, la
cui forza comunicativa è moltiplicata dall' originalissima struttura della breve lirica.
L'attacco è improvviso e la congiunzione negativa sembra far emergere alla coscienza il
frutto di una lunga e desolata meditazione sul proprio destino.
"Itaco" è riferito a Ulisse,
che peraltro in quanto "astuto" e "favorito" è ben
diverso dall'eroe "bello di fama e di sventura" di "A
Zacinto". La "poppa raminga" è quella della nave di Ulisse
errante per i mari: ritorna, di sfuggita, l'Ulisse col suo "diverso esiglio"
di "A Zacinto".
Qui, come Omero cantò l'esilio
di Ulisse e il suo ritorno, così il Foscolo canta il proprio esilio e il proprio non
ritorno. Una volta effettuato questo sdoppiamento e fatta l'analogia tra "illacrimata
sepoltura" e ricerca di Itaca per Ulisse, il Foscolo identifica nell'"illacrimata
sepoltura" il tema della tomba come ricordo dei vivi.
Forse perché della fatal quïete
tu sei l immago, a me sì cara vieni,
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zefferi sereni,
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni,
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co' miei pensier sull'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch' entro mi rugge.
Materialisticamente, la morte è un reimmergersi nel moto infinito e immemore della
materia. Il Foscolo nega ogni trascendenza e riafferma il
proprio materialismo: la materia ritorna materia, il
tempo cancella tutto.
Nel primo verso del sonetto "Alla sera", si denota un'amara meditazione
sulla morte, assegnata dal fato, alle affannose vicende dell'uomo. Qui il poeta desidera
associare alla sera l'immagine della morte nello stesso modo in cui nei "Sepolcri"
usa il termine "sonno della morte".
Vi è una chiara analogia nell'associare alla fine della vita un'immagine di pacatezza e
tranquillità.
Un dì, s' io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, mi vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentili anni caduto.
La madre or sol, s' io dì tardo traendo,
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo;
e se da lunge i miei tetti saluto,
sento gli avversi Numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch' io ne tuo porto quïete.
"Era rito classico de' supplicanti e de' dolenti sedere presso l' are e i
sepolcri" (Foscolo), offrendo goccia a goccia il latte. La parola "sedea"
richiama chiaramente l'immagine confidente di "In morte del fratello
Giovanni". In entrambi i casi si desidera addolcire un'immagine e diffondere un
senso di pacata mestizia.